Per Giovanni Falcone di Alda Merini

di Erik Lazzari

Sono trascorsi trent’anni dalla strage di Capaci: 23 maggio 1992 – 23 maggio 2022.
Per rimembrare Giovanni Falcone vi propongo il componimento “Per Giovanni Falcone”, scritto da Alda Merini pochi giorni dopo la grande tragedia. Poetessa e scrittrice milanese, Merini decise di omaggiare la lirica al giudice e alla sua eroica lotta contro la mafia. Questa venne pubblicata nel volume “Ipotenusa d’amore”, edito da “La vita” nel 1994.

Per Giovanni Falcone di Alda Merini

La mafia sbanda,
la mafia scolora
la mafia scommette,
la mafia giura
che l’esistenza non esiste,
che la cultura non c’è,
che l’uomo non è amico dell’uomo.

La mafia è il cavallo nero
dell’apocalisse che porta in sella
un relitto mortale,
la mafia accusa i suoi morti.

La mafia li commemora
con ciclopici funerali:
così è stato per te, Giovanni,
trasportato a braccia da quelli
che ti avevano ucciso.

In tre strofe, composte da anafore (la mafia, la mafia, …), personificazioni, enjambement e metafore, Alda Merini ha racchiuso il disprezzo e l’ira verso le organizzazioni criminali e il rimpianto per l’ingiusta e prematura morte di Giovanni, che, pur consapevole del suo avvenire, tanto ha lottato per l’intera popolazione.

 Per non dimenticare – La strage di Capaci

Il 23 maggio 1992 Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo, di ritorno da Roma, atterrarono all’aeroporto di Punta Raisi con un jet del Sisde (un aereo dei servizi segreti). Ad aspettarli, con tre auto blindate, vi era la scorta di Giovanni: la squadra che iniziò a sorvegliarlo dopo il fallito attentato dell’Addaura (1989). Mentre viaggiavano sull’autostrada A29, in direzione Palermo, all’altezza dello svincolo di Capaci un’esplosione disintegrò il corteo di auto e uccise il magistrato, la moglie Francesca e i tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.

La strage di Capaci fu voluta dalla “cupola mafiosa” (organo direttivo dell’organizzazione mafiosa Cosa nostra) in quanto il “pool antimafia” di Palermo, capeggiato dal giudice Antonino Caponnetto, aveva iniziato a colpire gli interessi e le cosche mafiose palermitane, in particolare a seguito delle uccisioni di Cesare Terranova, Gaetano Costa, Rocco Chinnici, Pio La Torre, Carlo Alberto della Chiesa e Giuseppe Fava. Questi si sacrificarono all’inizio degli anni Ottanta per contrastare l’assalto mafioso sia allo Stato che alla società civile.

A neanche due mesi di distanza, il 19 giugno 1992, Paolo Borsellino, un altro magistrato del “Pool antimafia”, venne ucciso (insieme ai suoi 5 agenti della scorta) da un’autobomba esplosa in via d’Amelio a Palermo. 

Giovanni Falcone e l’amico Paolo Borsellino, dunque, furono due grandi giudici che fecero la differenza nella lotta contro la mafia. Grazie al loro duro lavoro con i “pentiti” – persone o criminali che provano rimorso e confessano quanto accaduto (ex mafiosi) – i due magistrati diedero una struttura e un’identità al fenomeno mafioso, collaborando alla costruzione del maxiprocesso contro Cosa nostra, il più grande attacco alla mafia mai condotto in Italia che si concluse nell’1987 con 360 condannati.

La criminalità organizzata – spiegazione

Le organizzazioni criminali, come “Cosa nostra”, la “camorra”, la “‘ndrangheta”, e la “Sacra Corona Unita” erano un pesante condizionamento sulla vita democratica italiana. Per realizzare i loro affari – in particolare traffico di droga, estorsioni e controllo degli appalti pubblici -, queste associazioni mafiose intossicavano tutti gli aspetti della vita democratica, ricorrendo alla sopraffazione e calpestando i diritti dei cittadini. Alternavano, inoltre, i meccanismi del mercato, pretendendo il “pizzo” (il pagamento periodico di una determinata somma di denaro per esercitare varie attività economiche) o imponendo che i lavori pubblici venissero assegnati a loro imprese; falsavano la vita politica delle comunità, collocando loro rappresentanti negli enti locali.

La mafia si fa forte del suo radicamento storico soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno italiano. Questa era la situazione alla fine degli anni Settanta, quando la mafia scatenò un’offensiva terroristica senza precedenti contro le autorità dello Stato, una vera e propria intimidazione che culminò il 3 settembre 1982 con l’assassinio del genarle Carlo Alberto Dalla Chiesa, allora prefetto di Palermo.

La reazione dello Stato fu concretizzata dalla magistratura palermitana, in particolare dal “Pool antimafia” capeggiato dal consigliere istruttore Antonino Caponnetto e costituito dai giudici Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnetta e Giuseppe di Lello.

Grazie alle rivelazioni del “pentito” Tommaso Buscetta, i giudici riuscirono a istruire il cosiddetto maxi-processo contro Cosa nostra, che si aprì il 10 febbraio 1986 a Palermo. Furono coinvolti 474 imputati.  Il 16 dicembre dell’anno successivo (1987) la sentenza diede loro ragione: 2665 anni di reclusione, 19 ergastoli, 11 miliardi e mezzo di multa. Diede altresì la fine dell’impunità, per dimostrare che lo Stato era in grado di sconfiggere Cosa nostra.
Negli anni successivi, grazie alla collaborazione dei “pentiti” (ex mafiosi), si ottennero altri risultati nella lotta contro la criminalità organizzata.

Fondazione Giovanni Falcone

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